DON MILANI, UN PRETE SCOMODO
In questo centenario della nascita di Don Lorenzo Milani, sono tante le iniziative che si stanno realizzando per tutta l’Italia. Anche a Catania, domani 16 maggio alle ore 11,00, nell’Istituto Onnicomprensivo “A. Musco” (plesso di Zia Lisa) si terrà un incontro su “Attualità di Don Milani”, in cui interverrà anche il nostro Arcivescovo, Mons.Luigi Renna.
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923, da Albano e Alice Weiss. La sua è una famiglia borghese e molto ricca, che ha grandi possedimenti terrieri. Il papà di tradizione cattolica, ma ateo, la madre è ebrea, ed anch’essa atea. Dopo la maturità classica, Lorenzo non si iscrive all’Università, come da generazioni si usava nella sua famiglia, ma decide di darsi alla pittura e frequenta a Milano la prestigiosa accademia di Brera.
Ma durante lo studio delle opere d’arte sacra, nel giovane Lorenzo, già interiormente inquieto, insoddisfatto della sua vita borghese, che mai aveva messo piede in una Chiesa, cominciano a nascere degli interrogativi profondi sul senso della vita. Più tardi riconoscerà che la pittura, la bellezza l’ha portato alla ricerca del bene e dell’Assoluto. A poco, con l’aiuto di un sacerdote fiorentino (Don Bensi) comincia a conoscere Gesù Cristo e si converte alla fede. Riceve la Cresima, nel giugno del 1943. Durante tutta l’estate si “ingozza di Vangelo”, e decide della sua vita: vuole diventare prete, perché si sente “afferrato – conquistato” da Cristo al quale vuole donare tutta la sua vita. Quando Lorenzo comunica la sua decisione ai genitori succede il finimondo. Sua madre gli dice: “Questa notizia per noi è dolorosa come se tu fossi morto in guerra”. Tuttavia, il rispetto per la libertà del figlio induce i genitori a dare il consenso per il suo ingresso nel Seminario di Firenze, che avviene nel novembre 1943.
Dopo gli studi di Teologia, il 12 luglio 1947, Lorenzo viene ordinato prete e mandato come vice parroco a S. Donato (nel paesino di Calenzano).
Da subito il suo stile di vita sacerdotale è improntato alla povertà. E, pertanto, la scelta dei poveri è fondamentale: lo rende più simile a Cristo, che da ricco si è fatto povero (vd Fil), e fa sue le parole di Gesù nella sinagoga di Nazaret: “lo Spirito del Signore è su di me, mi ha mandato a portare il lieto annunzio di liberazione ai poveri” (vd Luca 4,18). Don Milani sogna una Chiesa povera e dei poveri (come sottolineerà Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II, e adesso papa Francesco). Per questo Egli sta dalla parte di coloro che vedono calpestati i loro diritti: ragazzi, costretti a lasciare la scuola, che lavorano nelle fabbriche, giovani operai sfruttati, con orari di lavoro disumani. Con queste persone discute, spiega le leggi, le questioni che riguardano la dignità del lavoratore (con la Costituzione alla mano).
Ma, allo stesso tempo, don Milani capisce che se non possiedono la padronanza della parola, questi operai non riusciranno mai a vincerla con i padroni, che tenteranno sempre di imbrogliarli, Ecco, allora, le coordinate entro cui don Milani svolge la sua azione, affermando con molta passione, il primato dei poveri, il primato del popolo, il primato della parola, che fa essere uomini. Infatti, l’uomo è ciò che è per la parola (ricordiamo Aristotele). (Da notare che Don Milani scrive parola con la p maiuscola e in corsivo). Pertanto, povero davvero è chi non sa parlare. Per questo, occorre dare la capacità di parola al popolo, perché i poveri siano davvero liberi e capaci di difendere i propri diritti.
Ma per raggiungere questo scopo, per insegnare a parlare ci vuole la scuola. E così a Calenzano, Don Milani organizza la scuola serale popolare (frequentata da operai e contadini, di qualsiasi schieramento politico o sindacale, da cattolici e atei). Egli ha colto fortemente la potenza della parola, ne ha compreso il valore pedagogico. Don Milani considera la parola, sia dal punto di vista umano come da quello biblico-teologico: ne sottolinea, pertanto, la forza creativa e la sua capacità di trasformare, di costruire. Egli osserva: «È tanto difficile che uno cerchi Dio, se non ha sete di conoscere. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani operai e contadini quella sete di conoscere sopra ogni altra sete e passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare con noi per cose alte. Purché si avvicini la gente su un livello di uomo, cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco”.
Qui si possono intravedere due aspetti importanti della pedagogia di Don Milani: l’applicazione del principio di gradualità e la visione positiva della persona: Non dire mai che non c’è nulla da fare. S. Tommaso d’Aquino aveva scritto: di fronte a un soggetto che avesse perso il suo splendore interiore è come se avessimo un pezzo di ferro arrugginito. Il fabbro, con il suo paziente lavoro di limatura, può far riemergere la lucentezza del ferro. In altri termini, un paziente lavoro pedagogico- formativo, può aiutare una persona a ritrovare il suo splendore umano: intellettuale e morale.
Il Primato dei poveri e il primato della parola hanno, per Don Milani, una conseguenza che sa di radicalismo evangelico: l’indipendenza del Vangelo rispetto alle ideologie e agli schieramenti ovvero la libertà e la trascendenza della parola. Don Milani vuole servire Dio lottando contro le ingiustizie sociali e impegnandosi a promuovere culturalmente e religiosamente i più deboli ed emarginati. Nella lettera del 1950 a Pipetta, un giovane comunista di San Donato, scriveva: « Ma non mi dire, Pipetta, ch'io sono l'unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita.[…] Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso».
Quel pretino giovane, pieno di entusiasmo, che parlava senza peli sulla lingua, senza fare sconti a nessuno né alla sua “ditta Chiesa”, né ai suoi avversari, e che sapeva stare vicino alla gente, da un lato si attirò le simpatie di tanti giovani lavoratori, che cominciarono a riempire la Chiesa parrocchiale di S. Donato, ma allo stesso tempo, si attirò le aspre critiche di tanti benpensanti cattolici, che quel poco che conoscevano del vangelo lo piegavano secondo i loro interessi. In generale, ancora, don Milani non fu visto bene neanche da quella parte della Chiesa, che era collaterale con il potere politico, magari con la scusa di favori o privilegi che, si diceva, potevano servire per il bene dei fedeli (chiese, locali, campi da gioco). In tal modo, parte della Chiesa (gerarchia ecclesiastica in primis) non si rendeva conto di essere schiava di coloro che detenevano le leve del potere. In quel contesto socio-politico ed ecclesiale [molto diverso da quello attuale], le idee di Don Milani davano fastidio a molti.
E questo lo si poté notare, quando don Lorenzo pubblicò il suo libro “Esperienze pastorali” (1958). Il libro mostra quale visione di Chiesa aveva don Milani: una visione che anticipava le idee del Concilio Vaticano II. Egli presenta la situazione della Chiesa, influenzata dai mutamenti etici e socio-culturali degli anni '50, attraverso un’indagine sociologica, ascoltando contadini, disoccupati, giovani tessitori, casalinghe, muratori e dirà parlando della religiosità trovata: "... una religione così non vale quanto la piega dei pantaloni". Svilupperà un'autocritica sugli atteggiamenti, i metodi, le cause che hanno impedito al prete di essere con il suo popolo. Parla della storia della parrocchia, dei metodi catechistici, dei Sacramenti, della frequenza nel riceverli, e delle soluzioni. Perciò invita a guardarsi attorno per poi trarre le giuste conclusioni e le decisioni nel campo pastorale, anche se queste assumono talora aspetti drammatici e brucianti. Che tipo di cristianesimo vive veramente questo popolo, qual è la sua fede, qual è il rapporto tra la fede e la vita? Vi sono pagine dal tono graffiante, ancora attuali. Si può, quindi, capire come il pensiero di don Milani fosse dirompente, desse fastidio a molti, anche se allora il fattore di rottura fu visto soprattutto sul terreno politico. Don Milani visse all’insegna di un radicalismo evangelico che non voleva blandire nessuno, né rendersi servo di alcuno.
Le forti polemiche suscitate dalle scelte pastorali di don Milani, fecero sì che, nel dicembre del 1954, il suo vescovo lo trasferisse a Barbiana: un paesino di montagna, sperduto, in vetta al Monte Giovi. Don Milani non riesce nemmeno a trovarlo sulla carta geografica. Una parrocchia di circa 120 persone. Pur essendo “parroco del niente di Barbiana” (come ha scritto M. Gesualdi, uno dei suoi ragazzi), Don Milani “quel niente ha fatto fiorire e fruttificare prendendosi cura degli altri”. Il 28 dicembre 1954, a sua madre (con la quale conservò sempre un rapporto intenso e profondo), che era in pena per lui, egli scriveva: “La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani”. Scriverà alcuni anni dopo: “[…] sono già quattro anni che mi hanno trasferito qui e siccome sto buono e non do noia a nessuno, nessuno, per grazia di Dio, mi potrà più levare di qui”. E la sua intenzione di rimanere in “quel niente di Barbiana” si vide allorché poco dopo il suo arrivo comprò la tomba. Barbiana, per l’azione svolta da Don Milani (per 13 anni, fino alla morte) con la sua scuola, divenne un simbolo molto importante.
Intanto, alla fine del 1958, il suo libro “Esperienze pastorali “ per le pressioni giunte, fino a Roma, fu ritirato dal commercio perché “inopportuno”; si badi: non perché eretico (sul piano della dottrina o della morale). E ciò, nonostante il libro avesse la presentazione di un Vescovo (quello di Camerino) e il nulla osta del Cardinale di Firenze (Elia Dalla Costa).
Diversi anni dopo, don Milani ebbe a dire al suo vescovo: “La differenza tra lei e me è che io sono avanti di 50 anni!”. Accadeva a don Milani ciò che è sempre successo ad ogni profeta: era un prete scomodo perché aveva una visione più ampia e più lunga degli altri, perché il suo passo era più spedito, andava più avanti (per usare un’espressione di Paolo VI), e gli altri non riuscivano a stargli dietro! Un prete che spesso entrò in conflitto con la gerarchia ecclesiastica, ma che, nonostante tutto, amò profondamente la Chiesa, anche quando questa lo fece soffrire perché non lo capì. La sua fedeltà alla Chiesa, per Don Milani, era un fatto che non si discuteva.
Come mai succedeva tutto questo? Perché la Chiesa è allo stesso tempo santa e peccatrice: lo Spirito di Dio e la parte umana (limitata e peccatrice). La Chiesa, a volte come Istituzione, rimane sclerotizzata, legata a schemi che vengono superati dalla Storia, dai tempi e quindi ha bisogno di rinnovarsi. “Il passare del tempo comporta che le cose invecchino e quindi la loro corruzione” (per dirla con Rosmini).
Don Lorenzo muore il 26 giugno 1967 (ha 44 anni), dopo una lunga malattia. Nel suo testamento a proposito dei suoi ragazzi, scrive: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma spero che Lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia iscritto tutto a suo favore”.
Per i 50 anni dalla morte di Don Milani, Mattarella ha scritto: “…lo ricordiamo come un grande italiano, che tanto ha dato alla crescita della società e con il quale abbiamo maturato un debito di riconoscenza”. E Papa Francesco a Barbiana, davanti alla tomba di don Milani (20 giugno 2017) afferma: «la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa».
Don Piero Sapienza