Riportiamo l’intervento che don Piero Sapienza ha tenuto il 16 febbraio 2023, al Palazzo di Giustizia di Catania, nell’ambito della Mostra “Sub Tutela Dei” dedicata al beato martire, il giudice Rosario Livatino

Riportiamo l’intervento che don Piero Sapienza ha tenuto il 16 febbraio 2023, al Palazzo di Giustizia di Catania, nell’ambito della Mostra “Sub Tutela Dei” dedicata al beato martire, il giudice Rosario Livatino, organizzata dalla Fondazione F. Ventorino, Ufficio Problemi sociali e lavoro dell’Arcidiocesi di Catania, Centro Culturale, Fondazione S. Agata.

1.Quali le convinzioni di fondo che guidavano l’attività del “magistrato” Rosario Angelo Livatino, ucciso dalla mafia, il 21 settembre 1990, all’età di 38 anni, mentre si recava al lavoro in Tribunale? In quanto cristiano, sapeva che l’uomo è creato “a immagine e somiglianza di Dio”. Quindi possiede una dignità e un valore inestimabili. Nell’uomo, in ogni uomo (anche nel criminale più incallito) c’è “una scintilla del fuoco divino”, un “elemento divino” (per dirlo con le parole del grande pensatore A. Rosmini, il quale, nella sua monumentale Filosofia del Diritto, arrivava a definire l’uomo “il diritto umano sussistente e quindi l’essenza del diritto”). Tuttavia, nell’antropologia cristiana si tiene conto anche del fatto che l’uomo, con le sue scelte di peccato, le sue azioni delittuose, può oscurare questa luce o addirittura spegnerla. Ma i germi, i semi del bene rimangono in lui, anche se sono soffocati. S. Tommaso d’Aquino, nella sua Summa theologica (S.Th. I, q.117, art.1), avrebbe fatto questo paragone di fronte a un soggetto che avesse perso il suo splendore interiore per la sua cattiva condotta: è come se avessimo un pezzo di ferro arrugginito. Non dire mai che non c’è nulla da fare. Infatti, il fabbro, con il suo paziente lavoro di limatura, può far riemergere la lucentezza del ferro. In altri termini, con un paziente lavoro pedagogico- formativo, si può aiutare una persona a ritrovare il suo splendore umano. E a tal proposito, papa Francesco osserva che “la virtù naturale della giustizia esige di essere esercitata con sapienza e con umiltà, avendo sempre presente la «dignità trascendente dell’uomo», che rimanda «alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato».

2. Inoltre, per Livatino era importante coniugare giustizia e carità. Infatti, scriveva: “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell'amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio [...]”. E' interessante notare che si tratta di una visione che è propria della Dottrina sociale della Chiesa. Infatti, nella Caritas in Veritate (n.6), Benedetto XVI nota con S. Agostino che la polis senza la giustizia sarebbe piuttosto “una banda di ladri”, ma allo stesso tempo evidenzia che: «la giustizia è inseparabile dalla carità, è intrinseca ad essa». Da un lato, la carità esige e presuppone la giustizia, ma dall’altro lato la supera e la completa. In queste affermazioni, a mio avviso, si può leggere il recupero della tradizione classica greca, e in particolare di Aritstotele, secondo cui la polis procede nella realizzazione di una giustizia sempre più vera nella misura in cui la vita sociale è innervata da sinceri vincoli di amicizia civile: “Sembra che persino le città siano tenute unite dall’amicizia, e i legislatori si preoccupano di essa ancor più che della giustizia…”(Etica Nicomachea, 1155 a 25-30).

3.Livatino era convinto che il Giudice deve distinguersi per un tratto profondamente umano, “egli è una persona seria sì, persona equilibrata sì, persona responsabile pure … persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire». “Il comportamento della persona è pienamente umano quando nasce dall'amore, manifesta l'amore, ed è ordinato all'amore. Questa verità vale anche in ambito sociale…” (CDS 580). Per Livatino il compito di giudicare implica serie difficoltà di coscienza. Scrive Livatino: “Il compito dell'operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. [...]”. Ed è proprio a questo punto “che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell'amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia;devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia”. E Livatino sottolinea: “Ed ancora una volta sarà la legge dell'amore, la forza vivificatrice della fede a risolvere il problema radicalmente. Ricordiamo le parole del Cristo all'adultera: "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra"; con esse egli ha additato la ragione profonda della difficoltà: il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta.
4.Livatino è beato e martire. Giovanni Paolo II (incontrando i genitori di Livatino) lo definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Troviamo la spiegazione di questa affermazione in S. Tommaso d’Aquino, il quale scrive:che “muore per Cristo non soltanto chi è ucciso a motivo della fede in Lui, ma anche chi è ucciso per qualsiasi opera di giustizia compiuta per amore di Cristo” (Super romanos VIII, 7). Ma questo momento supremo della vita di Livatino era stato preceduto da una fede vissuta nella fedeltà quotidiana al suo lavoro di magistrato. Come direbbe Francesco: è un santo della porta accanto. Un uomo che ha vissuto in modo straordinario la vita ordinaria, attuando così la “misura alta della vita cristiana” (G. Paolo II),cioè la santità, testimoniata con la coerenza della sua vita. E infatti, Livatino era solito ripetere: «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili». Pertanto, si può dire che Livatino ha lasciato un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge. Per questa fede adamantina, che si coniugava con la sua professionalità, molti lo denigravano come “santocchio”. Nell’udienza al Consiglio Superiore della Magistratura, il 17 giugno 2014, Papa Francesco definì Livatino, accostandolo a Vittorio Bachelet, testimone “esemplare dello stile proprio del fedele laico cristiano: leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana”. Il Card. Semeraro, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi afferma “che Livatino possedeva una personalità cristiana tale da permettergli di superare il piano della giustizia e dell’azione di un magistrato”.
Mentre lo uccidono, ai killer, Livatino dice: “Picciò, che vi ho fatto?”. Riecheggiano le parole di mitezza del profeta Michea (6,3) , riferite dalla liturgia a Cristo che patisce sulla Croce, “Popolo mio che cosa ti ho fatto?”
5- Per concludere, penso che le convinzioni di Livatino possano aprire spiragli per cominciare a percorrere le vie della giustizia riparativa. E infatti, per questo teniamo presenti le parole di papa Francesco (Nov. 2019): “Nella visione cristiana del mondo, il modello della giustizia trova perfetta incarnazione nella vita di Gesù […]. Le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato”. Torniamo così al valore di fondo della persona, e con la definizione di S. Tommaso: “persona significa relazione” (S. Th. I, q.29, art.4). La giustizia riparativa punta a restaurare “relazioni” tra le persone: quelle ferite (le vittime) e gli autori del delitto. Pertanto, percorrere la via della giustizia riparativa vuol dire porre le condizioni per far maturare la persona attraverso le relazioni da recuperare. Allora, con Papa Francesco possiamo dire: “ Non credo che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico”.

Don Piero Sapienza
Direttore Diocesano Ufficio Problemi sociali e lavoro